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Virtus Verona, Fresco: “Siamo antifascisti e antirazzisti, ma gli ultras dell’Hellas ci stimano: siamo rimasti quelli che eravamo”

venerdì 12 Maggio 2023 - Ore 19:25 - Autore: Staff Trivenetogoal

VERONA – Borgo Venezia è un quartierone di trentamila abitanti alla periferia orientale di Verona, al centro del quale ci sta uno stadiolo da mille posti o poco più che racconta un sacco di storie, perché lì gioca la Virtus Verona, maglie rossoblù, secondo club di una città che quando c’era ancora il Chievo era l’unica ad averne tre  tra i professionisti, e soprattutto patria di Luigi Fresco detto Gigi, che qui presiede e allena ininterrottamente dal 1982.  Il concetto va ribadito, perché ha dell’incredibile e sfiora l’inconcepibile: Fresco è al tempo stesso presidente e allenatore della Virtus da 41 anni, caso unico al mondo. La società è nata nell’oratorio della chiesa di San Giuseppe, poi si è trasferita di un bar paninoteca e adesso sta in questo centro polisportivo (ci sono anche uno campo di rugby e uno di baseball, oltre alle strutture della facoltà di scienze motorie) dove chiunque passi saluta Gigi, chiede di Gigi, da del tu a Gigi. I ragazzi che lavorano al bar hanno una t-shirt rossoblù della Virtus e la scritta Hasta la victoria siempre sul dorso. Nell’unica tribuna dello stadio capita che sventolino bandiere no Tav, arcobaleno o con l’immagine del Che. Gli ultrà, per così dire, sono i membri del gruppo ska/street punk Los Fastidios, che hanno scritto anche una canzone per Gigi, El Presidente, che dice così: “La storia di un uomo partito dal niente/Un entrenador, el Presidente/En este barrio el nuestro comandante/Que grita adelante por nuestro corazon/

El equipo unido jamás será vencido/En la union esta la fuerza del barrio antifascista”.

Quarantuno anni fa, quando Gigi si sedette quasi contemporaneamente dietro la scrivania e in panchina, la Virtus era al livello più basso del calcio italiano, mentre adesso si prepara a giocare i play-off per salire in serie B (primo turno stasera in casa contro il Novara, partita secca) e ha, come la Juventus, persino una seconda squadra, che milita in Promozione. Quello che succede qui non è mai successo da nessuna parte: “La storia del calcio di questo quartiere/ La leggi sui muri la senti nel cuore/È fatta di amore passione sudore/La storia del calcio di questo quartiere/Non solo calcio, persone vere, valori ideali ed umiltà”.

Come cominciò tutto, Gigi?

“Vi dico della mia prima volta da presidente: avevo 21 anni e presi il treno per Varese per incontrare il ds Sogliano, l’allenatore Fascetti e il responsabile del settore giovanile, un Marotta pieno di capelli lunghi. Diedi in prestito un giovane, Posenato, per un milione. L’anno dopo lo ripresi e lo vendetti a Malesani, che era il giovane dirigente di una squadra qui vicino, per 23”.

La Virtus è sua anche nominalmente?

“All’inizio eravamo quattro soci paritari, adesso ho l’ottanta per cento del club”.

Com’è l’inizio della storia?

“Quando avevo 12 anni e giocavo coi ragazzi, mi chiesero di dare una mano alla scuola calcio. Sono del 1961 e allenavo i bambini del ‘65. In tre anni vinsi il campionato e allora mi diedero in mano i pulcini. Avevo 15 anni. Perdemmo subito una partita e poi per tre stagioni e mezzo non più”.

Allenatore di bambini e giocatore nelle giovanili, giusto?

“Ero uno stopper. Una volta feci gol al Verona in un torneo, ma quando arrivai in prima squadra l’allenatore dell’epoca mi disse: o giochi o alleni. Io volevo fare entrambe le cose e allora me ne andai nella squadra riserve, dove il livello tecnico era terribile. Nell’intervallo ci davano da bere la gazzosa, certi rutti… In quella squadra c’era anche Massimo Bubola. Ci diceva sembra che andava da De André ma noi non ci credevamo e lo prendevamo per il culo, finché una sera la Rai diede un documentario su Pasolini: loro due cantavano la sigla, Una storia sbagliata. Restammo basiti”.

Quando smise con la riserve e il calcio giocato?

“A 21 anni mi diedero in mano la prima squadra per provare a salvarla dalla retrocessione in Terza Categoria, ma non ce la facemmo. A quel punto tecnici e dirigenti scapparono tutti, perciò si dovette eleggere un nuovo consiglio e la cordata di cui facevo parte venne eletta con un plebiscito. Come presidente scelsero me. E da lì cominciò tutto”.

Dalla Terza Categoria fino a? 

“La scalata è stata graduale: un anno in Terza, quattro in Seconda, quattro in Prima, nove in Promozione, sei in Eccellenza, sette in serie D, uno in C2, altri quattro in D e cinque in serie C. Almeno cinque, per ora. Poi vediamo come vanno i play-off. Ci fu un periodo in cui Adailton, ve lo ricordate?, venne a darmi una mano per un po’. Diceva che voleva imparare il mestiere per poi partire dalla D. Gli ho risposto che io ci ho messo 27 anni per arrivarci, in D”.

Lo sa che sta per battere il record mondiale di Guy Roux, che ha allenato per 44 anni l’Auxerre?

“L’ho già superato, Guy Roux, perché lui per un anno e mezzo non ha allenato in quanto era stato esonerato. Sono l’unico al mondo ad aver guidato ininterrottamente la stessa squadra per così tanto tempo, perché anche Maley del Celtic dovette interrompere, lui a causa della guerra. Roux vorrei conoscerlo. Lo contatterò”.

Ma i suoi colleghi che dicono?

“Quando mi chiedono com’è fare allenatore e presidente assieme rispondo che funziona benissimo: non ho mai rotture dalla società”.

Non ha mai pensato di esonerarsi?

“Alcune volte, ma poi la domenica ho vinto e mi sono confermato”.

Anche quando è retrocesso?

“È successo una volta sola, quando dalla C2 siamo tornati in D, ma solo perché quell’anno vennero riformati i campionati e aboliti i due livelli, per cui di fatto le squadre vennero dimezzate. Invece una volta siamo retrocessi sul campo ma poi siamo stati ripescati: ogni anno, in C, c’è sempre qualcuno che non ce la fa a iscriversi e chi ha i conti in ordine subentra”.

Come si campa, di Virtus Verona?

“Facendo un altro lavoro. Fino a due anni sono stato il direttore amministrativo in una scuola, ma adesso sono in aspettativa”.

Quindi guadagna bene?

“In D mi davo 500 euro al mese, adesso 1200: non ci posso rinunciare, perché per legge l’allenatore di serie C deve guadagnare almeno il minimo contrattuale. Come dirigente non prendo una lira”.

Non ha mai pensato a una carriera altrove?

“Non credo che nessuno mi offrirebbe una panchina. Né che la accetterei. In passato ebbi una offerta dalla Casertana dopo che la battemmo nello spareggio per andare in C2. Il presidente mi disse: se prima o poi verrai via da lì, per te avrò sempre un posto. Molti anni fa mi chiamò invece il Mantova, ma in quel periodo stavo seguendo un ragazzo che stava facendo la chemio e non me la sentii di lasciarlo”.

Ha più rapporti con i colleghi presidenti o con i colleghi allenatori?

“Con gli allenatori. Di Prandelli sono amico, ma mi sento anche con Castori, Alvini, Dionigi, Italiano, il bravissimo Nicolato. Juric mi manda sempre gli auguri di Natale. Anche con Bagnoli ero tanto amico, Ballardini mi ha mandato a dire di volermi conoscere”.

Come ha imparato il mestiere?

“Da autodidatta, studiando sui libri o andando a vedere il lavoro degli altri, soprattutto Delneri e Malesani. I vari corsi li ho potuti fare perché me li sono guadagnati man mano con i risultati, anche se per la licenza Uefa A, che vale per allenare in C, ho dovuto muovere le mie conoscenze, perché la sessione era a invito: chiesi a Tavecchio di inserirmi in lista. Ricordo che c’era tutto il Milan di Sacchi: Evani, Baresi, Colombo, Eranio. Con Baresi andavo a fare footing insieme e rideva come un matto quando gli dicevo che non avevo mai giocato a pallone. Dieci anni dopo accumulai i punti per partecipare al master di Coverciano: andavo su e giù in macchina assieme a Roberto Baggio, col quale legammo subito e parlavamo in dialetto. Prima di partire, Mimmo Di Carlo mi disse: vedrai che all’inizio non ti considererà nessuno, ma al fine del corso verrai considerato il leader. E in effetti mi chiesero di fare il discorso alla cena conclusiva con i docenti: se non lo fai tu chi vuoi che lo faccia, mi dissero. C’erano Pecchia e Nicola, Cerezo, Zè Maria, Cauet, Mangia, Bertotto, Festa, ma per esempio mi stupì Benny Carbone: seppi che litigò di brutto con un insegnante per difendermi da un’accusa, eppure non avevamo un rapporto particolare. Comunque ho il patentino per allenare anche in A”.

Anche stare in C non è male, visto da dove è partito, no?

“La serie C è una categoria in perdita e bisogna sempre escogitare qualcosa per sopravvivere: avere sempre più sponsor o fare plusvalenze. Una stagione ci costa due milioni di euro. Il monte ingaggi è 700 mila euro lordi, credo sia il secondo più basso del nostro girone. La federazione ci dà 7-800 mila euro in base ai giovani che facciamo giocare. Grazie al credito di imposta siamo riusciti a ottenere molte sponsorizzazioni perché alle aziende conviene, ma se lo aboliscono diventa dura. Se andassimo in B risolveremmo ogni problema, a condizione di fare una politica saggia tipo quella del Cittadella, che oltretutto ha rischiato due volte di andare in A”.

Pensate davvero alla B?

“Ai play-off partecipano 29 squadre e ne va su soltanto una, quindi abbiamo circa 3 possibilità su 100 di ottenere la promozione. Però dalla D venimmo su uscendo da un play off con 36 squadre: le percentuali di riuscita erano minori”.

Come sono i rapporti con l’Hellas?

“Buoni. Noi siamo antirazzisti e antifascisti e per anni la questura non ci ha lasciato fare amichevoli con il Verona perché temevano scontri ideologici tra ultrà, ma un anno ci siamo ritrovati in ritiro assieme a Fiera di Primiero e non è successo niente. Anzi, gli ultras dell’Hellas sono venuti dirci che ci stimavano, “perché voi siete rimasti quelli che eravate”. Non avevano invece digerito che il Chievo avesse adottato i colori gialloblù e il simbolo della scala”.

Cosa vuol dire che siete sempre gli stessi?

“Che non abbiamo mai tradito le nostre origini e io le nostre abitudini. II primo ritiro estivo l’ho organizzato nel 1977 con le giovanili e adeso sono 43 anni che porto tutta la società in mese montagna d’estate, dai bambini ai grandi. I primi 13 anni cucinavano le mamme, compresa la mia, e i ragazzi sbrigavano i lavori domestici, poi abbiamo trovato chi ci ospitasse in albergo e da 28 anni andiamo a Fiera di Primiero”.

Se saliste in B, andreste a giocare al Bentegodi?

“Quando siamo arrivati in C abbiamo speso un milione per sistemare lo stadio. Più che trasferirci, mi piacerebbe di più tirare su una gradinata in più nel nostro stadio. A Fermo ne hanno messa una da 5000 posti, basterebbe e avanzerebbe”.

Però viaggiare le piace molto, non è vero?

“Fin quando abbiamo giocato in Eccellenza non ho mai pagato i giocatori, però alla fine della stagione li portavo in vacanza tutti assieme e il rito è continuato fino alla pandemia. Siamo stati in un sacco di posti: siamo partiti da Lloret de Mar, Amsterdam e Parigi e poi abbiamo cominciato ad andare in Tunisia, a Cuba, dove venimmo ricevuti da Sotomayor e tentai di incontrare Fidel senza  riuscirci, in Brasile, a Panama, in Thailandia, nella Repubblica Dominicana, in Giamaica, in Argentina, negli Stati Uniti, in Israele. A Cuba siamo stati diverse volte, portavamo 300 chili di medicine: un mese e mezzo prima della partenza davo ai ragazzi il compito di raccattare tutto quello che trovavano. Siamo stati anche in Kossovo e a Sarajevo con Tommasi e Di Francesco, per contribuire alla ricostruzione di impianti sportivi dopo la guerra. Ma spesso facciamo anche un viaggio, più breve, a metà stagione. Nel 2018 eravamo in crisi e andammo a visitare il lager di Dachau: fu un’esperienza emotivamente molto forte. Al rientro vincemmo sette partite di fila”.

Dachau e Sarajevo non sono destinazioni casuali.

“Siamo sempre stati impegnati nel sociale. Siamo stati i primi a ad avere gli obiettori di coscienza, lo sono stato anch’io. Abbiamo gestito l’immigrazione albanese di fine anni 80: i tre che abbiamo accolto si sono tutti  laureati. Siamo stati nell’ex Jugoslavia durante la guerra viaggiando con camion gestiti da un militare e un obiettore di coscienza. Andiamo spesso a giocare in carcere e ho preso più volte ex detenuti a lavorare in società. Tempo fa, ogni estate portavamo con non in ritiro un tossicodipendente in fase disintossicazione. Un anno abbiamo ospitato su questo piazzale 300 zingari sgomberati. Mi sono laureato con una tesi sugli zingari, so che aiutarli era impopolare perché il razzismo nei loro confronti mette d’accordo tutti: infatti scatenammo le ire della destra e anche quelle della sinistra perché le facevamo perdere voti.Abbiamo accolto i profughi africani: quelli che volevano fare sport li hanno sempre mandati da noi. La storia esemplare è quella di Sheikh Sibi, il nostro potiere: arrivò a Lampedusa con i barconi, adesso è nazionale del Gambia”.

Da voi giocano anche giocatori di nome che hanno conosciuto la A, come Hallfredsson, Juanito Gomez o Nalini: come riesce a convincerli, anche se li pagate pochissimo e giocano davanti a meno di mille spettatori?

“Non sono così presuntuoso da credere che sia merito mio: abbiamo fama di società seria e poi molti che hanno giocato da queste parti si fermano a vivere a Verona, dove si sta molto bene. Nalini, poi, lo conosco da quand’era piccolo: è cresciuto qui. Alle cene del giovedì Hallfredsson porta anche i bambini, mentre Juanito Gomez ogni sette tra gol e assist organizza una grigliata per tutti: i bonus che gli diamo li investe così”.

Cosa sono le cene del giovedì?

“Un altro dei miei riti incancellabili. Quarantadue anni fa le facevamo in un garage e mia mamma cucinava il risotto per tutti, poi trovammo il ristorante che ci ospitava. Non ho mai smesso di farle, non è ammessa nessuna scusa valida per non partecipare e ci si alza da tavola tutti assieme. Perché lo faccio? Team building, non si dice così?”.

Come sta reagendo Verona alla vostra escalation?

“Ormai per noi tifa un po’ tutta la città, da questo punto di vista abbiamo in parte sostituito il Chievo, ma restiamo una squadra di quartiere e a vederci vengono più che altro amici e parenti. Abbiamo un piccolo gruppo di ultrà i cui capi fanno parte di una band che ha un certo seguito internazionale, i Los Fastidios: girano il mondo a fare concerti, in realtà hanno più pubblico loro di noi”.

Quanto ci pensa alla serie B?

“Sognare non costa nulla. Dopo tredici partite eravamo ultimi e noi e la Cremonese eravamo le peggiori tra le squadre professionistiche, poi abbiamo vinto a Trento e da allora solo il Napoli ha fatto più punti di noi”.

Lei si sente sul serio un bravo allenatore?

“Secondo me sì, ma ho anche ottimi collaboratori. Sono consapevole che molti vengono a lavorare con me per prepararsi una carriera altrove, perché io do molto spazio ai miei vice”.

Riuscirà la Virtus a sopravviverle?

“Sì, perché sto già preparando il futuro senza di me: il mio socio, Matteo Saorin, porterà avanti il lavoro. Prima o poi in B ci andremo. E magari anche in serie A. Io il patentino ce l’ho”.

Fonte: Repubblica.it






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